È da qualche mese che (per fortuna) il giornalismo fa autocritica.
Diversi contributi di firme di livello hanno evidenziato le criticità sempre più tangibili e pericolose che stanno emergendo pesantemente.
Fino a oggi non mi era ancora capitato, però, di intercettare ben due analisi nello stesso giorno.
Una è di Anna Masera, public editor de La Stampa, che con un pezzo accorato e profondo si congeda dai lettori: la sua posizione è stata eliminata e lei è in prepensionamento, ma prima di lasciare la redazione ci consegna riflessioni utili a capire cosa sta succedendo.
L’altra è di Annamaria Testa, che già da un po’ ha iniziato ad affrontare il problema.
Tornando ad Anna Masera, devo ammettere che fino dall’inizio della sua avventura come public editor, decisamente sovraesposta su La Stampa, mi ero chiesta se fosse realmente una figura indispensabile, o se fosse stata creata solo per dare seguito al progetto internazionale che la prevedeva. Poi ho rimosso quasi totalmente la testata dai miei radar, e non me ne sono più curata.
Fino alla sua lettera di addio di oggi.
Per curiosità, sono andata a vedere com’è evoluto il Trust Project negli anni, e, da quanto mi è dato capire, temo che il mio scetticismo iniziale non fosse del tutto infondato.
The Trust Project è a mio avviso troppo “meccanico” per poter funzionare realmente. Non si possono superare la disaffezione e la mancanza di fiducia dei lettori con interventi così accademici sui contenuti e sui contenitori.
La fiducia si riconquista partendo dalle persone: dai giornalisti, dagli editori, dalle redazioni, dagli investitori e anche dai lettori.
E qui interviene la riflessione di Annamaria Testa. Nel suo pezzo evidenzia talmente tante verità da non poter essere riassunto, e pertanto vi esorto a leggerlo nella sua interezza, saranno minuti spesi benissimo.
Alcuni passaggi ci tengo però a riportarli.
Per Annamaria Testa vi sono diversi elementi cruciali attorno i quali ruota il degrado della qualità del giornalismo.
Il primo è la situazione totalmente nuova che vede al centro realtà come i social che fino a venti anni fa non esistevano nemmeno, e che hanno portato a disintermediare in modo inatteso e non governato il contenuto informativo.
A questo si aggiungano il sovraccarico di notizie, peraltro di minore qualità, gli effetti collaterali della profilazione svolta per aumentare l’engagement e le maggiori visibilità e attrattività per gli investitori delle fake news rispetto ai contenuti reali.
Peggiorano ulteriormente il quadro – ricorda Annamaria Testa – gli interessi economici delle piattaforme, concentrate esclusivamente sul profitto e la mancanza di trasparenza evidenziata anche dallo scandalo dei Facebook Files, che nulla ha smosso nelle coscienze di noi utenti, e di cui pochissimo si è letto (chissà perché…) sui giornali e sui social.
Adesso Facebook vuole ripulirsi l’immagine e, con la scusa di lanciare il metaverso, un progetto a mio avviso mostruoso che sarebbe da bloccare sul nascere, sta pensando di cambiare nome, ma questo non risolverà niente.
Personalmente non ho idea di come si possa uscire da questa spirale discendente e tornare ad avere un giornalismo affidabile, che aiuti a ragionare e sia stimolo di democrazia, ma voglio sperare che una strada esista ancora, e la si possa imboccare al più presto.
Forse sarà una nuova piattaforma, forse i giornalisti torneranno a rendersi indispensabili e a farsi apprezzare, convincendoci a pagare per contenuti di qualità, come è giusto che sia.
Siamo però noi lettori quelli che potranno riportare sulla rotta giusta il giornalismo, non pretendendo il tutto-gratis (perché la qualità ha sempre un costo), iniziando di nuovo a leggere con spirito critico e selezionare le fonti, a pretendere che il giornalismo non sia asservito al soldo e, magari, che si torni ad avere professionisti preparati in grado di controbattere, di dubitare, e di evitare il semplice copincolla delle veline che ricevono via mail.
Ma è ora che si agisca tutti insieme, giornalisti e lettori. Ne va della democrazia.