Pian piano, lentamente, in modo raffazzonato, sulle testate nazionali (su alcune delle) iniziano ad arrivare notizie che sono già ben coperte da mesi sulla stampa economica estera:
- crisi delle materie prime, con impossibilità di proseguire gli approvvigionamenti qui nei paesi occidentali (europei in primis, per n motivi). Non per un problema di costo, le aziende europee, italiane in testa, sarebbero disposte a pagare di più le materie prime necessarie per la produzione, ma il problema è che queste proprio non ci sono. Aziende che lavorano con magazzini just in time in ginocchio già da mesi, le altre che pian piano stanno vedendo svuotarsi le scorte e iniziano ad avere tempi di consegna dei prodotti finiti sempre più lunghi
- centralizzazione di una grande fascia di materie prime indispensabili per alcune produzioni in mano cinese, dopo l’acquisto in blocco di miniere e collateral africani, nel silenzio di tutti, come se fosse una nota di colore o un accadimento secondario. Ora i materiali per i chip, per le batterie (per esempio delle auto elettriche che ormai sono viste come la panacea di qualsiasi problema), per i componenti di minuteria indispensabili per ogni produzione non sono più disponibili per le aziende occidentali
- gravi ritardi nella distribuzione via mare. L’incidente di Suez è stato solo un assaggio, anzi, un piccolissimo amuse bouche. Se si pensasse male verrebbe da dire un test, ma noi non pensiamo male. Il piatto forte sta arrivando adesso, con container bloccati a terra, costi di handling e shipping schizzati alle stelle, porti cinesi chiusi con la scusa di un caso positivo tra le migliaia di operatori (ammetterete che puzza un po’ di scusa, vero?)
- l’apparente apertura alle regole dell’economia di mercato è andata da mo’ a farsi benedire, e le aziende cinesi, forti dei cervelli occidentali transumati in loco anche attratti da stipendi più che allettanti, e della capacità di “riprodurre” – apprezzerete l’eufemisno – continuano a lavorare fuori da ogni regola legata alla sostenibilità ambientale, al diritto del lavoro, alla fiscalità, alla proprietà intellettuale.
Questa è una guerra. Una guerra che se lasciata proseguire così, con un mondo produttivo occidentale vincolato da un’infinità di normative sempre più complesse e a volte dalla dubbia utilità e uno cinese che segue la filosofia del liberi tutti, porterà in breve tempo alla distruzione dell’economia produttiva occidentale.
Avessimo tempo e voglia potremmo anche riflettere sul tema della differenza tra costo e valore (la merce cinese costa poco ma dura meno e spesso non è manco a norma), dei dazi che impongono in Cina su quasi tutto quanto viene prodotto all’estero e che ha attratto produzioni europee in loco, calamitando poi il know-how e trattenendolo), del fatto che le ramificazioni continuano anche sul mercato al dettaglio, con l’acquisto, diretto o meno, di un’infinità di esercizi commerciali sul suolo italico, dell’esistenza di agenzie immobiliari e di intermediazione d’affari che si sono specializzate sui clienti cinesi, beh, ecco, avessimo tempo di altro ci sarebbe da dire, e molto.
Ma rimane un fatto: questa è una guerra economica. E la stiamo già perdendo