La lettura rapida mattutina delle notizie, e in particolare di quella del ramsomware sui dati della Regione Lazio, fa sprofondare ancora di più – e non era facile – nella depressione della critica.
Si leggono purtroppo articoli scritti male, senza un briciolo di fondamento tecnico (non lo pretendo direttamente dal giornalista, ma questo dovrebbe almeno avere il buonsenso di chiedere aiuto a un esperto), qualcuno stile legal-thriller, qualcun altro stile collage di baggianate, altri ancora che sembrano tirati su da un bot programmato per scrivere romanzetti di fantascienza per ragazzini.
La sostanza è che la situazione è grave, gravissima, terrificante, ma c’è timore di andare contro il messaggio universale del “lo smartworking è cosa buona e giusta e salva le famiglie e rende felici e viva viva lo smartworking“.
La narrazione romantica dello smartworking (chiamiamolo così per comodo anche se sappiamo tutti fin troppo bene che di smartworking non si tratta) come strumento salvifico e bucolico scenario futuro per cui tutti noi dobbiamo essere grati alla bandemiah non può essere ricondotta alla realtà, ossia che hic et nunc il remote working alla matriciana, in Italia, nella PA, è pericolosissima per un’infinità di motivi.
Quindi si leggono articoli che fanno venire le lacrime agli occhi per gli errori e le omissioni e le interpretazioni errate.
Ma un ulteriore livello di terrore deriva dal fatto che anche i para-guru stanno ancora sminuendo quanto è accaduto, e purtroppo si portano dietro come trullari pifferai magici i loro groupie adoranti.
L’accaduto è gravissimo, ed è solo un miliardesimo della punta di un iceberg contro cui il microscopico e sgangherato barchino “Italia digitale yeah yeah” si è già schiantato a sua insaputa.